martedì 30 dicembre 2014

Il calendario

In occasione della fine dell'anno ho pensato di fare un ripasso o meglio capirci qualcosa di più sul nostro calendario, in particolare soffermandomi sulle sue origini e sul suo cambiamento nel corso del tempo.
Il calendario che seguiamo attualmente è quello cosiddetto "gregoriano" che prende il nome da Papa Gregorio XIII il quale attuò una riforma, su suggerimento di una Commissione, sul preesistente calendario "giuliano".
Prima di giungere al calendario adottato oggi vorrei proporvi un breve excursus sui calendari delle diverse civiltà.
Nelle regioni della Babilonia e dell'Assiria nella prima metà del II millennio a.C. fu imposto un unico calendario lunare, basato su un anno di 12 mesi, di 29 o 30 giorni che iniziavano la sera; tra le antiche feste mensili del novilunio e plenilunio si inseriva anche un sacrificio nel giorno 7°, dando origine così alla settimana.
Nell'Antico Egitto il giorno era diviso in 24 ore, il mese in 30 giorni e l'anno in 365 giorni. All'anno così composto si aggiungevano 5 giorni non inseriti nei mesi. Le stagioni erano tre: quella dell'inondazione, quella dell'uscita della terra dalle acque e quella della raccolta.
In Grecia l'anno constava di 12 mesi lunari alternativamente di 29 o 30 giorni; per ovviare all'inconveniente di un anno di 354 giorni si escogitò l'introduzione di un mese supplementare che veniva aggiunto con criteri diversi dalle varie poleis elleniche.
Il problema comune di questi calendari è quello dello "scollamento" fra anno solare e anno civile, perchè il secondo non può essere esattamente uguale al primo che misura 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi.
Nell'Antica Roma, ai tempi di Romolo, sembra che l'anno civile fosse di 304 giorni, diviso in 10 mesi, dei quali, 6 di 30 giorni e 4 di 31. I nomi dei mesi erano quelli attuali ad eccezione di gennaio e febbraio che non esistevano perchè l'anno si faceva partire dal mese di marzo. Il mese di luglio era chiamato Quintilis, cioè "quinto mese", cambiato successivamente in Julius in onore di Giulio Cesare. Così anche per il mese di agosto chiamato inizialmente Sextilis, cioè "sesto mese", cambiato poi in Augustus, a motivo del fatto che in quel mese riportò tre vittorie e mise fine alle guerre civili. I nomi dei mesi successivi è evidente che erano così chiamati essendo il settimo, l'ottavo, il nono e il decimo mese dell'anno.
Riguardo il fatto che mancavano in questo calendario gennaio e febbraio si ipotizzava che i Romani avessero ereditato quel calendario da una popolazione indoeuropea che abitava in quale luogo presso il Polo Nord dove in quei due mesi dell'anno vi era totale mancanza di luce. Quando questo popolo migrò al Sud dovette adeguare il calendario così come fecero i Romani aggiungendovi due mesi. Secondo la leggenda fu Numa Pompilio ad aggiungere i due mesi e a portare l'anno a 355 giorni.
Tuttavia la differenza di circa dieci giorni e mezzo fra l'anno solare e quello di Numa Pompilio provocò in breve tempo un distacco tra l'andamento delle stagioni e quello dell'anno civile, Per ovviare a questo inconveniente si tentò di aggiungere ogni due anno un tredicesimo mese che avrebbe dovuto essere alternativamente di 22 o 23 giorni, ma anche questa soluzione sembra non risolse il problema.
Fu Giulio Cesare nel 46 a.C. ad attuare una riforma del calendario, forse dietro suggerimento dell'astronomo Sosigene; stabilì che la durata dell'anno fosse di 365 giorni e che ogni quattro anni si sarebbe dovuto intercalare un giorno complementare. L'anno di 366 giorni fu detto "bisestile" e il giorno complementare doveva cadere sei giorni prima delle calende di marzo. In questo modo si attuò il cosiddetto calendario "giuliano" di 365 giorni diviso in 12 giorni alternativamente di 30 o 31 giorni, ogni quattro anni febbraio era di 29 giorni e i mesi di gennaio e febbraio da ultimi divennero i primi due mesi dell'anno.
Anche questo calendario portò degli errori facendo cadere l'anno bisestile ogni tre anni invece che quattro costringendo successivamente a rimettere a posto le cose.
Infine nel 1582 Papa Gregorio XII attuò una nuova riforma, da qui il nome di calendario "gregoriano". Con tale riforma si stabilì che dovessero essere comuni (anziché bisestili) quegli anni secolari che non fossero divisibili per 400. Quindi, in definitiva, rimangono bisestili tutti gli anni non terminanti con due zeri e divisibili per 4, e quegli anni terminanti con due zeri ma divisibili per 400. Dalla data della riforma a oggi, dunque, fu bisestile l'anno 1600, non lo furono gli anni secolari 1700, 1800 e 1900, mentre lo è il 2000. La differenza fra il calendario gregoriano e quello giuliano è che il primo conta solo 97 anni bisestili nel corso di 400 anni, anziché 100 anni bisestili, come invece fa il secondo. Ciò significa anche che ogni 400 anni vi sono 97 giorni che si aggiungono ai 365 di ogni anno comune; e siccome 97 giorni equivalgono a 97 x 24 x 60 x 60 = 8.380.800 secondi, dividendo questa cifra per 400 abbiamo una media annua di 20.952 secondi, equivalenti a 5 ore, 49 minuti primi e 12 secondi. Quindi l'anno civile medio risulta di 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi, con una differenza per eccesso di soli 26-27 secondi da quello solare. Ciò comporta la differenza di un giorno dopo circa 30 secoli, o meglio, di tre giorni ogni 10000 anni.
Al di là di tutti questi conti, ancora una volta possiamo dire che per secoli un sistema adottato dai Romani sopravvive oggi seppure con qualche piccola differenza.

Fonti:
- Enciclopedia Italiana Treccani

lunedì 1 dicembre 2014

BASTA LAVORO GRATIS

Anche se sul mio blog non parlo di questioni politiche e afferenti, vorrei spendere comunque qualche parola sulla manifestazione (una delle tante) che lo scorso 29 novembre è stata fatta a Roma occupando simbolicamente il Pantheon. Il nocciolo della protesta è lo stesso da anni, poco lavoro e spesso gratuito, in un Paese in cui vige il volontariato in questo settore.
Ebbene è possibile che in un Paese come l'Italia, che è la nazione che detiene il maggior numero di siti definiti "patrimonio dell'umanità", per non parlare di tantissimi altri siti minori sparsi per il nostro stivale, la professione di archeologo, storico dell'arte o restauratore non è svolta in maniera adeguata? é possibile che la maggior parte di chi "lavora" nei siti archeologici è un volontario e spesso neanche con la qualifica specifica per il lavoro che svolge? Invece si! Nel 2014 in Italia tutto ciò è possibile!
Intanto da alcuni anni chi sale al potere promette di dare posti di lavoro, di riconoscere la professione, di puntare l'economia italiana sul turismo culturale, eppure ad oggi i risultati sono scarsi.
Si fanno concorsi per un lavoro di 12 mesi, definito "tirocinio"; Franceschini ha firmato un protocollo d'intesa per l'impiego di 2000 VOLONTARI di Servizio Civile Nazionale per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, in sostanza 12 mesi di Servizio Civile con uno stipendio di circa 400 euro al mese per 12 mesi, di solito previsto per il Servizio Civile http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_1316503507.html.
Certo, come si dice "la speranza è l'ultima a morire", ma di vivere di speranza e solo di sogni non se ne può più, abbiamo bisogno di atti concreti e serietà e non prese in giro!
BASTA LAVORO GRATIS questo è stato lo slogan della manifestazione del 29 novembre scorso, riporto di seguito tg e testate giornalistiche che ne hanno parlato:
Archeologi in piazza TG Rai 1
Corriere della sera Tv
Il manifesto
La Repubblica

giovedì 20 novembre 2014

La città di Troia o Ilios

Vi ricordate la celebre leggenda di Troia che per secoli ha arrovellato le menti di tanti studiosi e ancora oggi desta fascino e mistero? A tal proposito vorrei parlarvi di un'altra grande scoperta di tutti i tempi: la scoperta della città di Troia o di Ilios, in greco.
I primi scavi vennero condotti da uno studioso francese, Jean Baptiste Lechevalier, che, nel 1785, Iliade alla mano, aveva attraversato la Troade identificando le Kirk Goz, le "quaranta fonti" presso Pinarbashi, con le sorgenti calda e fredda dello Scamandro, descritte nel poema.
Nel 1864 il tedesco Johann Georg von Hahn volle verificare la tesi di Lechevalier e sulla collina trovò i resti di un antico insediamento. A questo punto venne data per certa l'identificazione ma Schliemann non era veramente convinto e anzi voleva provare l'infondatezza dell'identificazione.
Sembra però che non intuì da subito che Troia potesse trovarsi sulla collinetta di Hissarlik e che fu il console britannico Frank Calvert, grande conoscitore della Troade, dal momento che la sua famiglia da tempo risiedeva in quella zona, che gli indicò la collinetta.
Il console così avvio degli scavi che gli consentirono di portare alla luce parti del tempio di Atena e settori delle mura di fortificazione di Troia VI, che risalivano alla media età del Bronzo. Calvert si rese conto, inoltre, che la collina di Hissarlik era composta da una serie di strati sovrapposti appartenenti a diverse epoche dell'insediamento.
La città di Troia

Schlielmann, sollecitato dal collega britannico, decise di intraprendere le prime esplorazioni che furono condotte tra il 1870 e il 1873. Schlielmann era convinto che la città di Priamo si trovasse nello strato più basso della collina e che quindi doveva arrivare al terreno vergine. Così scavò, nel 1871, un enorme trincea larga quattro metri e ogni giorno sempre più profonda. Dopo due mesi di scavi ormai pensò di aver sbagliato, che la città non si trovasse lì, ma decise comunque di continuare le operazioni di scavo. Soltanto nell'anno successivo Schlielmann raggiunse le imponenti mura che identificò con quelle della città descritta da Omero. A poco a poco emersero, oltre le mura, anche i resti delle porte, delle strade che fecero da scenario alle gesta di Ettore e Paride. Ecco che giunse a una scoperta eccezionale, una delle più citate nel mondo dell'archeologia: nei pressi della cosiddetta "casa di Priamo", venne alla luce un tesoro inestimabile composto da recipienti in oro, argento e bronzo e numerosi gioielli. La scoperta avvenne nel 1873.
La "maschera di Agamennone", "tesoro di Priamo",
Museo Archeologico Nazionale di Atene

Schlielmann non sapeva però che aveva oltrepassato lo strato propriamente "omerico" per raggiungere una città ancora più antica che gli archeologi in seguito denominarono "Troia II". A questa fase risale il cosiddetto "tesoro di Priamo", all'incirca tra il 2600 e il 2200 a.C. Dunque il tesoro apparteneva sicuramente a un principe o a un re molto potente ma che non si poteva identificare con Priamo. In ogni caso questo strato di "città bruciata" venne identificato con l'antica Ilios, città cantata da Omero. Lo scopritore di Troia morì prima di poter accedere alla prova definitiva che la città che aveva messo in luce era più antica di quella descritta da Omero. Fu l'archeologo Wilhelm Dörpfeld a riportare alla luce tra il 1893 e il 1894 lo strato più recente della città denominato "Troia VI", corrispondente all'agglomerato insediativo che ancora oggi è riconosciuto come la città descritta da Omero. In realtà la questione non è risolta perchè sono ancora tanti i dubbi e le domande che ci si pone sia sulla storicità della guerra di Troia, sia sulla reale corrispondenza di questa città con quella omerica. Una cosa è certa è esistita una città composta di nove strati e che ha avuto una continuità insediativa che va dal 3000-2600 a.C. all'età bizantina, che si tratti invece della città protagonista del poema omerico a noi piace pensare che sia così,

martedì 4 novembre 2014

La Villa dei Papiri

Ricostruzione virtuale della Villa
La Villa dei Papiri fu scoperta per caso nel 1750 durante gli scavi avviati dai Borboni per mettere in luce l'antica Ercolano, sepolta dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
L'evento fu fortuito perchè, mentre si procedeva al di sotto di uno strato di lava dell'eruzione del 1631, vennero fuori alcuni frammenti di marmo. Continuando nello scavo si giunse ad un'exedra circolare sopraelevata, ricoperta di un pavimento a intarsio di marmi policromi: si era arrivati al belvedere di una sontuosa villa di grandi dimensioni. In una galleria si seguì un lungo muro che altro non era che il muro di fondo di un ambulatio di un solarium, cioè di una lunga terrazza riparata a nord dal muro ed esposta a sud verso il mare e destinata forse alle passeggiate post prandium. Dalla lunga galleria si giunse ad alcuni ambienti che precedevano un immenso peristilio, circondato da colonne, al centro del quale era una grandiosa piscina. Fra gli intercolumni del peristilio, nella zona del giardino, al bordo della piscina, erano le statue che ora sono conservate nel Museo Nazionale di Napoli. Si arrivò poi al tablinum e in due punti diversi dell'ambiente si trovarono svariati papiri, in gran numero latini. In tutto furono trovati 850 rotoli. Gli scavatori borbonici non compresero subito che si trattava di papiri; a prima vista in effetti sembravano dei carboni. Con un occhio più attento compresero che non erano semplici carboni, avendo delle misure regolari, e all'inizio si pensò a involti di stoffa, a reti per caccia e pesca. Secondo una testimonianza antica, in seguito allo spezzarsi di uno di essi, si notarono delle lettere e si comprese si trattassero di testi scritti.
Da quel momento in poi iniziò la difficile operazione di svolgimento dei papiri.
Vennero mandati al Museo di Portici dove nacque l'Officina dei papiri ercolanensi.
Alcuni di essi vennero persi proprio durante i tentativi del loro svolgimento.
Dopo aver provato diverse tecniche, utilizzando il mercurio, l'acqua di rose, senza esito, si affidò il compito all'abate Antonio Piaggio, il quale ideò una famosa macchina con la quale sono stati svolti la maggior parte dei rotoli di papiro.
I papiri hanno restituito anche testi inediti come il "Sulla musica" di Filodemo e l'XI libro dell'opera fondamentale di Epicuro, "Della natura".
Il nucleo originario del patrimonio librario ercolanense si formò in Grecia e fu successivamente portato in Italia forse da Filodemo stesso in occasione del suo trasferimento a Roma e poi ad Ercolano. Ad esso poi si aggiunsero testi filodemei copiati su suolo italico.
A chi apparteneva questa sontuosa Villa ad Ercolano? Da momento che i testi restituiteci dalla biblioteca sono opere di Filodemo, filosofo epicureo, e la Villa è un edificio sontuoso, ricco di arredo non comune per quantità e qualità, doveva appartenere a un personaggio di ceto e censo elevati e poichè sappiamo da Filodemo stesso e da Cicerone che il filosofo di Gadara era amico e protetto da Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Giulio Cesare, si è supposto che la Villa appartenesse proprio alla famiglia dei Pisoni. Quest'ipotesi è ancora oggi quella più probabile e accettata da tutti.
La costruzione della Villa è datata tra il 60 e il 50 a.C.
Dopo la seconda metà del 1700 altri scavi furono effettuati nel 1980. Nel 1986 iniziarono le attività di scavo a cielo aperto. Venne riaperto un pozzo borbonico, il pozzo Veneruso, grazie al quale gli archeologi si trovarono in prossimità della cosiddetta "colonna gemina" in corrispondenza cioè del passaggio tra il grande giardino rettangolare e gli ambienti dei tablinum, ovvero le stanze in cui furono trovati i primi papiri. Il sopralluogo continuò anche nel pozzo "Ciceri 1" e si potè stabilire con certezza la planimetria della villa.
Planimetria di Weber
Si constatò che oltre il piano documentato dall'architetto Weber all'epoca borbonica vi era anche un altro piano che non era stato individuato dall'esplorazione settecentesca.

Villa dei Papiri oggi
Gli ambienti visibili oggi sono l'atrio, la basis villae, ed alcune stanze di un livello inferiore.
Una bellissima ricostruzione virtuale della magnifica Villa dei Papiri di Ercolano si può ammirare al M.A.V. di Ercolano, dove si può rivivere l'atmosfera e la magia di quella biblioteca in cui migliaia di anni fa studiosi da ogni dove venivano per consultare testi e per discutere di filosofia.

mercoledì 22 ottobre 2014

I quattro "stili pompeiani"

Non tutti sanno che, quando parliamo dei famosi "quattro stili pompeiani", ci riferiamo a una classificazione generale della pittura romana codificata dall'archeologo tedesco August Mau sulla base delle pitture giunte fino a noi dalle città della Campania sommerse sotto la cenere e il fango del Vesuvio. Infatti le particolari condizioni di conservazione di città come Pompei (da qui l'aggettivo "pompeiano") e Ercolano hanno reso possibile studiare l'evoluzione della pittura di Roma.
In realtà si usa il termine "stile" erroneamente perchè si parla piuttosto di schema decorativo.
Casa di Sallustio, Pompei (Tratto da "Pompei. Guida agli scavi")
Casa Sannitica, Ercolano
 (Tratto da "L'arte dell'antichità classica")
Il primo stile detto anche "strutturale o dell'incrostazione" si colloca dal II sec. a.C. alla prima metà del I sec. a.C., imita un rivestimento in lastre di marmo e le lastre erano imitate modellando dello stucco che veniva colorato. Si utilizzava sia in edifici pubblici che in abitazioni e in particolare nelle abitazioni modeste cosicchè si evitava l'utilizzo del marmo. Si trovano alcuni esempi a Pompei nella Basilica, nella Casa del Fauno e nella Casa di Sallustio; ad Ercolano nella Casa Sannitica. 
Casa dei Grifi, Palatino, Roma
(Foto tratta da "L'arte romana nel centro del potere")

Villa dei Misteri, Pompei (Tratto da "Pompei. Guida agli scavi")
Il secondo stile detto "dell'architettura in prospettiva" si colloca tra la seconda metà del I sec. a.C. e il I sec. d.C.. La pittura imita le architetture in modo realistico: troviamo parapetti, colonne, architravi e spesso uno zoccolo inferiore con una decorazione a incrostazione. Con un abile gioco di luci e ombre si creava un effetto illusionistico, in rilievo. A Roma troviamo questo stile nella casa dei Grifi sul Palatino; a Pompei è presente all'interno della Villa dei Misteri; ma forse l'esempio più ricco del secondo stile si trovava nella villa di Boscoreale che risale a dopo il 50 a.C. le cui pitture sono state smantellate e si trovano sparse in diversi musei.

Casa di Giulio Polibio, Pompei (Tratto da "Pompei. Guida agli scavi")
Il terso stile detto "ornamentale"si sovrappone al secondo stile e arriva fino all'epoca di Claudio (41-54 d.C.). C'è un'inversione di tendenza in quanto viene abbandonata la prospettiva architettonica e si lascia il posto a strutture piatte con campiture monocrome, scure, assimilabili a tendaggi o tappezzerie, al centro dei quali si collocano dei pannelli (pinakes) con raffigurazioni di diverso genere. Ne abbiamo un esempio nella Casa di Giulio Polibio e a Pompei.

Casa dei Vettii, Pompei (Tratto da "Pompei. Guida agli scavi")
Il quarto stile detto "dell'illusionismo prospettico" si colloca subito dopo il 60 d.C. perchè a Pompei lo ritroviamo utilizzato nella decorazione di diverse ville dopo il terremoto del 62 d.C. Si caratterizza per una grande ricchezza ma nulla di nuovo dal momento che riprende gli stili precedenti, dall'imitazione di lastre marmoree del primo stile, alle finte architetture del secondo stile agli elementi vegetali tipici del terzo stile. Gli esempi più importanti a Pompei li troviamo nella Casa dei Vettii e nella Casa dei Dioscuri.

Fonti:
- "Roma. L'arte romana nel centro del potere" di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Milano, 2007
- "L'arte dell'antichità classica. Etruria-Roma", di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Mario Torelli, Novara, 2008
- "Pompei. Guida agli scavi" di Pier Giovanni Guzzo e Antonio d'Ambrosio, Napoli, 2010

mercoledì 15 ottobre 2014

Colonne e capitelli

Con questo nuovo post voglio introdurre una nuova rubrica chiamata "Non tutti sanno che..." per rispolverare o insegnare a chi non ne ha mai avuto conoscenza, alcuni termini base dell'archeologia e della storia dell'arte.
Chi non ricorda a scuola quella confusione tra colonna, capitello, ordini e chi ne ha più ne metta? Ecco! Vorrei iniziare proprio chiarendo il significato di questi termini e il loro uso nell'antichità.
La colonna è un elemento architettonico che poteva essere in legno o pietra, era di forma cilindrica e veniva utilizzato negli edifici come supporto ad altri elementi.
Generalmente la colonna è formata da una base, un fusto e un capitello ma a seconda delle diverse epoche la sua struttura può variare.
Il capitello è la parte sommitale di una colonna, lesena o pilastro su cui poggia l'architrave dell'edificio e anch'esso presenta diverse tipologie sulla base degli ordini architettonici a cui appartiene.
Arriviamo dunque all'ordine architettonico. Si definisce ordine architettonico uno degli stili sviluppatesi nell'architettura greca e codificati successivamente dalla cultura architettonica, ognuno distinto da profili, proporzioni, dettagli caratteristici e generalmente riconoscibili dal tipo di colonna e di capitello, o meglio da tutto l'insieme degli elementi architettonici che vanno a costituire un sistema trilitico, quindi la colonna, il relativo capitello e la sovrastante trabeazione.
Dunque sia che parliamo di colonna dorica, ionica e corinzia sia che parliamo di capitello dorico, ionico e corinzio non facciamo nessun errore, bisogna però sapere che fanno parte di un ordine architettonico ovvero di un insieme di elementi che hanno determinate caratteristiche.

L'ordine dorico, come ci suggerisce il nome, ha un origine peloponnesiaca anche se si diffonde a partire dal VI sec. a.C.. La colonna è rastremata verso l'alto, presenta dalle 16 alle 20 scanalature che creano un effetto chiaroscuro e termina con un leggero rigonfiamento. Il capitello è formato dall'echino, si tratta di una specie di "cuscinetto rigonfio" che tende a una forma tronconica su cui poggia l'abaco che ha la forma di un prisma con base quadrata.

L'ordine ionico assorbe e rielabora motivi orientali. A differenza dell'ordine dorico la colonna ionica non poggia direttamente sul gradino ma presenta una base formata da due elementi, uno chiamato toro di forma convessa su cui poggia la scotia di forma concava. In Grecia abbiamo invece due tori con in mezzo la scotia. Sulla base si erge il fusto che ha proporzioni più snelle rispetto all'ordine dorico e le scanalature sono separate da listelli. Sul fusto poggia il capitello ionico caratterizzato da due volute, al centro di ogni voluta, chiamato "occhio", poteva esserci una decorazione.

L'ordine corinzio è caratterizzato soprattutto dalla decorazione del capitello costituito da foglie d'acanto e volute.

mercoledì 8 ottobre 2014

Atena/Minerva

Atena, secondo la mitologia greca, nacque per partenogenesi da Zeus che inghiottì Meti, patrona della saggezza e della sapienza.
Secondo i Pelasgi la dea Atena nacque presso il lago Tritonide in Libia, dove fu raccolta e nutrita da tre ninfe di quella regione che vestivano pelli di capra. Ancora fanciulla uccise accidentalmente la sua compagna di giochi Pallade, mentre erano impegnate in uno scherzo giocoso armata di lancia e scudo; in segno di lutto aggiunse al suo nome quello di Pallade.
Atena inventò il flauto, la tromba, il vaso di terracotta, l'aratro, il rastrello, il giogo per i buoi, la briglia per i cavalli, il cocchio e la nave. Fu la prima a insegnare la scienza dei numeri e tutte le arti femminili, come il cucinare, il filare e il tessere. Difatti nell'immaginario collettivo è la dea della tessitura, dell'artigianato, nonchè della sapienza, acquisita dalla madre.
Atena è anche la dea della guerra, essa non gode delle sanguinose battaglie come accade ad Ares e a Eris ma preferisce appianare le dispute e far rispettare la legge con mezzi pacifici. Quando invece è impegnata in una guerra non perde mai una battaglia sia pure contro lo stesso Ares perchè più esperta di lui nell'arte strategica
Molti dèi Titani o Giganti avrebbero volentieri sposare Atena ma essa si rifiutò. Durante la guerra troiana, non volendo chiedere le armi a Zeus che si era dichiarato neutrale, chiese a Efesto di fabbricarle un'armatura, Efesto si rifiutò di pagarla perchè dichiarò di prendere l'incarico per amore, Atena accettò non capendo la frase di Efesto. Quando si recò da lui egli cercò di farle violenza; si trattava in realtà di uno scherzo di Posidone che informò Efesto che Atena si stava recando da lui per fare l'amore. Quando Atena divincolò da Efesto questi eiaculò sulla sua coscia, un pò al di sopra del ginocchio. La dea si ripulì dello sperma con della lana che gettò via disgustata; la lana cadde al suolo presso Atene e fecondò la Madre Terra che passava di là. La Madre Terra rifiutò ogni responsabilità per l' educazione del bimbo nato e Atena allora lo prese sotto la sua protezione chiamandolo Erittonio. Per evitare che Posidone ridesse del suo scherzo riuscito, lo celò in un cesto e lo affidò ad Aglauro, figlia maggiore del re di Atene, Cecrope, raccomandandole di averne cura. Si dice che Erittonio fosse metà uomo e metà serpente come Cecrope.
La verginità di Atena era per gli Ateniesi il simbolo dell'espugnabilità della città e per questo che in un momento successivo per giustificare la presenza di un fanciullo-serpente che sbuca dall'egida di Atena nelle pitture arcaiche modificarono la nascita di Erittonio, facendo derivare il nome da erion che significa "lana" e da chtonos "terra".
Nell'iconografia classica Atena è rappresentata con elmo, egida e scudo.
Atena, Glyptothek, Munchen
Abbiamo una versione con il serpente che esce dall'egida: si tratta della cosiddetta "Atena Giustiniani", una copia romana di età antonina di un originale greco di fine V sec. e inizio IV sec. a.C.
Atena Giustiniani, Musei Vaticani
Un'altra famosa rappresentazione di Atena è la "Varvakeion Athena", ovvero una copia di II-III sec. d.C. dell'Atena Parthenos di Fidia che fu posta all'interno del Partenone nel 447 a.C.

Varvakeion Athena,
Museo Nazionale Archeologico di Atene





mercoledì 1 ottobre 2014

Domus e Insulae

Prendendo spunto dalla curiosità di una mia amica su come si presentava una casa al tempo degli antichi Romani ho pensato di parlarvi un pò delle abitazioni romane.
Come oggi il luogo, cuore della vita di tutti i giorni, è la casa, così era anche per i romani.
Da un punto di vista tipologico le case si suddividevano in due grandi categorie: le domus, ossia le case signorili, e le insulae, ovvero i caseggiati popolari, articolati in più piani e suddivisi in appartamenti.
Un primo mito da sfatare è che le case romane erano tutte grandi e belle come le immaginiamo oggi dai resti che ci sono pervenuti. In realtà se oggi disponiamo perlopiù dei resti di domus romane è perchè trattandosi di abitazioni di uomini ricchi questi potevano permettersi di utilizzare materiali resistenti e di qualità per la loro costruzione; lo stesso non possiamo dire per le insulae per le quali si utilizzavano materiali più deperibili, soprattutto il legno.   

Inizialmente le stanze erano disposte intorno all' atrium che costituiva il fulcro della residenza, il cuore della vita familiare. In seguito l'assetto della domus divenne più complesso e la centralità dell'atrio divenne meno accentuata.
Gli elementi ricorrenti erano un primo corridoio di ingresso, il vestibulum a cui ne seguiva un altro che immetteva nell'atrio (fauces).
L' atrium era caratterizzato da un ambiente solitamente quadrato, aperto, con al centro una vasca chiamata impluvium, all'interno della quale si raccoglieva l'acqua piovana e collegata sotto a una cisterna sotterranea, in modo tale da conservare l'acqua; un lato dava sul giardino, il peristilio, un ambiente circondato da portici e pieno di vegetazione.
Dal cortile si accedeva ai cubicula, ovvero le stanze da letto che erano piccole e buie, senza finestre; al tablinum, che inizialmente aveva la funzione di sala da pranzo, dove le famiglie consumavano i pasti ma in un momento successivo diventò una sala di ricevimento degli ospiti; al triclinum che comparve successivamente e sostituì la sala da pranzo, era il luogo in cui si svolgevano i banchetti alla maniera greca, sui triclinari, ovvero dei letti. Vi era poi la taberna, la moderna cucina.
Il peristilio era sicuramente il vero ambiente di rappresentanza dove i romani amavano ostentare la propria ricchezza arricchendolo di statue e fontane; ancora oggi a Ercolano e Pompei ne possiamo ammirare la bellezza. Il colore dominante delle pareti delle domus era il famoso "rosso pompeiano", altri colori utilizzati erano l'azzurro, il giallo, il verde. Sulle pareti venivano riprodotte scene di vita quotidiana, cibi che venivano consumati o immagini della famiglia che vi abitava. Inoltre si tendeva a rappresentare immagini legate alla funzione dell'ambiente in cui si trovavano per questo è stato possibile stabilire la funzione dei diversi ambienti. Gli ambienti di servizio come bagni, cucine o le stanze riservate alla servitù erano disposti in maniera non visibile agli ospiti ma comunque in una posizione da rendere possibili comunicazioni comode e veloci.

L' insula invece si articolava su più piani, il più delle volte l'ambiente a piano terra era costituito dalle botteghe di vario genere e di un soppalco per il deposito dei materiali e/o per l'alloggio degli artigiani più poveri. Generalmente i piani non erano meno di cinque, anche se da Augusto in poi si cercò di limitare l'altezza delle insulae imponendo delle misure standard; all'interno erano suddivise in più appartamenti che prendevano il nome di cenacula.
L'esterno di questi edifici popolari era decoroso, all'interno invece la situazione era caotica per la promiscuità d'uso degli spazi, spesso nello stesso ambiente si dormiva e si mangiava, e per l'assenza di alcuni servizi essenziali come i bagni. Nonostante i romani fossero dei bravi ingegneri idraulici e avessero dotato l'Urbe di acquedotti, nelle insulae, soprattutto negli appartamenti ai piani più alti, non arrivava l'acqua. Per i gabinetti utilizzavano quelli pubblici, le cosiddette latrine, di cui abbiamo alcuni esempi ad Ostia antica e di notte usavano dei vasi che i romani avevano l'abitudine di svuotare la mattina gettandone il contenuto dalla finestra.



mercoledì 24 settembre 2014

Ara Pacis Augustae

Dalle Res Gestae di Augusto, dai Fasti di Ovidio e dai calendari, sappiamo che il Senato decretò che venisse eretta un' ara nel Campo Marzio per celebrare le vittoriose campagne militari di Augusto in Spagna e in Gallia e dunque l'ottenuta Pax Augusta.
Il voto e la constitutio dell'altare ebbero luogo il 4 luglio del 13 a.C., mentre la dedicatio, a completamento dell'opera, fu celebrata il 30 gennaio del 9 a.C.
I primi resti dell' Ara Pacis vennero alla luce nel 1568 nelle fondazioni di un palazzo di fronte alla chiesa di S. Lorenzo in Via Lata (l'attuale Via del Corso), mentre gli scavi regolari vennero eseguiti nel 1903 e nel 1937-38, riuscendo a ricostruire gran parte dell'altare.
Il vero e proprio altare si trova all'interno di un recinto che è posto sopra un basso podio a cui si accede tramite una rampa di nove gradini; il recinto è di forma pressochè rettangolare e presenta due aperture sui lati brevi; vi sono poi sia all'interno che all'esterno quattro pilastri angolari e altrettanti presso le due aperture/porte che vanno a sostenere un architrave. La decorazione interna del recinto non ha alcuna connessione con quella esterna. All'interno troviamo, in alto ghirlande sorrette da teschi di bue, ovvero bucrani simbolici residui del sacrificio, e patere, recipienti rotondi in metallo usati nelle offerte per versare un liquido sull'altare; in basso abbiamo la riproduzione in marmo di una staccionata di tavole; i due fregi sono separati da una fascia a palmette e fiori di loto eretti.















All'esterno il recinto presenta una decorazione che a sua volta è costituita da elementi indipendenti dal punto di vista strutturale. La decorazione si divide in due fregi: quello in alto figurato e quello in basso con girali d'acanto, separati da una fascia a meandro.
Il fregio figurato si divide in due parti ben distinte: i quattro pannelli presso le porte rappresentano scene mitiche e allegoriche, mentre i due fregi sui lati lunghi rappresentano una scena di processione-assemblea che va intesa come unitaria.
Per quanto riguarda i due pannelli presso la porta principale rappresentano, a sinistra una scena di Lupercale, ove vi è presentato il mito delle origini di Roma: Marte armato, padre dei gemelli, e il pastore Faustolo che assistono presso il ficus Ruminalis all'allattamento di Romolo e Remo da parte della lupa.
Nel pannello di destra vi è raffigurato il sacrificio di Enea agli dei Penati.
Sull'altro lato breve abbiamo sul pannello di sinistra, integro, la personificazione della "Saturnia Tellus"; si tratta di una figura allegorica che potrebbe rappresentare Venere genitrice o di una personificazione dell'Italia o ancora della Pax, volendo rimandare all'immagine della pace che governa sull'Italia. Nel pannello di destra invece abbiamo la personificazione di Roma in veste di amazzone seduta su una catasta di armi.
Sui lati lunghi, come abbiamo accennato, vi è rappresentata una processione che potremmo dividere in due parti, una ufficiale con i sacerdoti e una semi-ufficiale con i membri della famiglia di Augusto.
La processione dovrebbe iniziare sul lato meridionale, che è il più importante perchè si rivolge verso la città; vi dovrebbero essere rappresentati i dodici littori, poi seguivano i togati in cui vanno riconosciuti i pontefici e tra questi al centro Augusto pontifex maximus e infine chiudevano quattro personaggi con il tipico copricapo apicato (il galerus). A questo punto si chiude la processione ufficiale e inizia quella della famiglia imperiale con un netto stacco. Si tratta ovviamente di ricostruzioni perchè non ci sono giunti integri i fregi e soprattutto sull'identificazione dei personaggi della famiglia di Augusto vi sono ancora dubbi.
C'è da dire che sicuramente non si tratta della rappresentazione realistica della processione ma semplicemente di una raffigurazione ideale della situazione "politica" della dinastia in quei quattro anni cruciali tra il 13 e il 9 a.C., in rapporto a problemi di successione.   
Dell' altare vero e proprio vi rimangono pochi resti, un fregio con personificazioni, forse di province, in basso e un fregio con processione di vestali e di vittimarii in alto ed un pulvino di coronamento con girali e protomi leonine.
Nel complesso l' Ara Pacis è un monumento imponente pieno di significati allegorici e simboli, dal punto di vista artistico racchiude il carattere bipolare dell'arte romana imperiale, da un lato ritorno al classicismo dall'altro elementi di ambiente italico-romano.

mercoledì 17 settembre 2014

I Bronzi di Riace

In questi giorni non si fa che parlare della possibilità di esporre i Bronzi di Riace a Milano in occasione dell'Expo che si terrà dal 1 maggio al 31 ottobre 2015. Per questo motivo ho deciso di parlarvi di questi magnifici bronzi e raccontare la loro storia.
I Bronzi di Riace furono scoperti il 16 agosto 1972, nel tratto di mare antistante il comune calabrese di Riace Marina (da cui prendono il nome), da Stefano Mariottini, un appassionato subacqueo, in vacanza in Calabria durante un' immersione a circa 200 m dalla costa e a 8 m di profondità.
Con molta probabilità dovevano far parte del carico di una nave romana, forse diretta a Roma, poi naufragata.
Un primo restauro venne effettuato tra il 1975 e il 1980 a Firenze. L'operazione consistette nella pulizia e conservazione delle superfici esterne; si cominciò con l'asportazione della terra di fusione dall'interno delle statue che era diventata corrosiva poichè nel corso del tempo si era impregnata di cloruri. La rimozione della terra si concluse negli anni 1992-1995 in un'operazione che si trasformò in un vero e proprio micro-scavo stratigrafico utilizzando un sofisticato dispositivo ispirato alla strumentazione per la chirurgia microinvasiva.
Terminate le operazioni di pulizia le due statue furono collocate nel Museo di Reggio Calabria dove ancora oggi si possono ammirare.
I Bronzi sono quasi certamente opere originali dell'arte greca del V sec. a.C., costituendo già in questo senso un unicum, in quanto le statue greche a noi pervenute sono pochissime; infatti la maggior parte delle statue conservate nei musei di tutto il mondo sono copie romane di originali greci.
Le statue, denominate "A" e "B", sono più grandi del vero alte l'una 1,98 m e l'altra 1,97 m; rappresentano due uomini completamente nudi armati di scudo (tenuto con la sinistra), di lancia (tenuta con la destra) ed elmo, forse smontati per l'imbarco per permettere di adagiarli sulla schiena e facilitarne il trasporto.
La lancia era probabilmente verticale e poggiata a terra nella statua "A" e sospesa nell'aria per la statua "B" dove il solco di appoggio dell'asta non si trovava solo sull'avambraccio ma anche sulla spalla.
La testa della statua A ha una resa raffinatissima della barba con ciocche sinuose e una capigliatura trattenuta da una larga fascia; la bocca ha le labbra in rame e i denti in lamina d'argento. Gli occhi hanno ciglia in lamina bronzea, le cornee in avorio e le iridi, non conservate, erano probabilmente in pasta vitrea.
La testa della statua B si presenta liscia e deformata ricoperta da una cuffia di cuoio o di feltro; la bocca è sempre realizzata in rame; si conserva solo l'occhio destro con la cornea in marmo bianco.
I due Bronzi presentano una struttura detta "a chiasmo", ovvero a ritmo incrociato: alla gamba destra su cui grava l'intero peso corrisponde il braccio sinistro piegato, alla gamba sinistra flessa ed avanzata corrisponde il braccio destro abbassato.
Il bronzo A risulta più nervoso e vitale mentre il bronzo B più calmo e rilassato.
Statua A
Le differenze stilistiche delle due statue secondo alcuni studiosi sono da attribuire a due autori diversi ma contemporanei tra il 458 e il 450, secondo altri a due scultori operanti in anni diversi l'uno nel 460/450 ( si tratterebbe di Fidia; statua A), l'altro nel 430/410 (si tratterebbe di Alcamene; statua B), ma nel corso degli anni si sono susseguite tantissime ipotesi e ancora oggi ci sono dubbi sulla datazione, la provenienza e gli autori.
Statua B

Le statue oggi sono esposte nel Museo di Reggio Calabria, all'interno di una sala dotata di un sistema di controllo del clima mantenuto sui 20° d'inverno e sui 25-27° d'estate e un tasso d'umidità del 35-40%, per evitare l'innescarsi di nuovi fenomeni di corrosione. Questo è uno dei motivi principali per cui la Sovrintendente ai beni archeologici della Calabria, Simonetta Bonomi, non è del tutto favorevole al loro spostamento.
Trovate sul link, che riporto di seguito, un'intervista in cui la Sovrintendente spiega che non vi è stata in merito una richiesta formale da parte dell'Expo http://www.calabriaonweb.it/2014/09/09/magnifici-bronzi-si-visitano-reggio-calabria-bonomi-dalle-olimpiadi-al-g8-al-2010-polemiche-cicliche-ma-lexpo-formalmente-non-li-ha-mai-richiesti/.
Al di là di tutte le polemiche, che spesso a mio avviso sono inutili e a vantaggio soltanto dei personaggi che le "costruiscono", ho ritenuto importante far conoscere la storia di queste due bellissime statue, opere di cui tutti dovremmo andar fieri, patrimonio della nostra storia culturale.


martedì 16 settembre 2014

Dioniso/Bacco

La versione più famosa del mito di Dioniso è che quest'ultimo era figlio di Zeus, che travestito da uomo mortale, ebbe un'avventura con Semele, figlia di Cadmo re di Tebe; la moglie Era, gelosa, consigliò a Semele, già incinta di sei mesi, di chiedere al suo amante di rivelarsi nella sua vera forma altrimenti avrebbe sospettato che fosse un mostro. Zeus rifiutò la richiesta e Semele gli negò il suo letto. Il dio furibondo scatenò tuoni e fulmini causando la morte di Semele. Ermete riuscì a salvare il bambino cucendolo nella coscia di Zeus dove potè maturare gli ultimi tre mesi. Ecco perchè Dioniso è detto "nato due volte".
Dioniso fu dato da Era ai Titani i quali lo sbranarono e ne bollirono i resti.
Ma la nonna Rea, madre di Zeus, gli ridonò la vita.
Zeus allora l'affidò a Persefone che lo condusse dal re di Orcomeno Atamante, e convinse sua moglie Ino ad allevare Dioniso negli alloggi delle donne travestito da fanciulla. Ma Era non si lasciò ingannare e punì la coppia con la pazzia, cosicchè Atamante uccise il figlio scambiandolo per un cervo. Ermete seguendo le istruzioni di Zeus trasformò Dioniso in un capretto o ariete e lo portò dalle Ninfe sul Monte Nisa in Elicona. Fu proprio sul Monte Isa che Dioniso inventò il vino che gli portò grande fama. Quando raggiunse la maturità, Era riconobbe in lui il figlio di Zeus, nonostante fosse effeminato a causa dell'educazione ricevuta, ma lo fece impazzire. Dioniso così iniziò a vagare per il mondo accompagnato dal suo tutore Sileno e da un gruppo di Satiri e Menadi, le cui armi erano dei bastoni ricoperti di foglie di edera e spade. Navigò in Egitto, poi si diresse verso l'India poi tornò in Occidente, invase la Tracia, poi passò in Beozia dove riuscì a far accettare il suo culto. Tornò nell'Egeo e ovunque si recava diffondeva gioia e terrore pervaso da questa euforia, questa ebrezza che spesso sfociava in violenza.
A Nasso incontrò la bella Arianna che Teseo aveva abbandonata e la sposò senza indugio. Infine affermato il suo culto in tutto il mondo Dioniso ascese al cielo e nell'Olimpo siede alla destra di Zeus.
Sileno e Dioniso di Lisippo (310-300 a.C.),
Glyptothek , Munchen
Il filo conduttore della storia di Dioniso è la diffusione della vite in Europa, Asia e Africa settentrionale. Il cosiddetto trionfo di Dioniso consistette nell'affermarsi della superiorità del vino su ogni altra bevanda inebriante.

Hermes con Dioniso fanciullo di Prassitele (350-330 a.C.),
Museo archeologico di Olimpia











Pittura parietale. Da sinistra verso destra: Sileno che fa bere
 un giovane Satiro, mentre un altro Satiro regge una maschera
spaventosa; Dioniso seduto con Arianna; scena di iniziazione,
Villa dei misteri, Pompei




Dal punto di vista archeologico e storico-artistico troviamo diverse rappresentazioni di Dioniso, da giovinetto di bell'aspetto a uomo barbuto a un vecchio grasso e buffonesco. Di seguito vi propongo alcune raffigurazioni scultoriche e pittiche; ricordo a tutti che le statue sono copie romane di modelli greci, dunque non originali.
Dioniso ed Eros.
Rielaborazione del II sec. d.C.
di un originale
di fine IV sec. a.C.,
Museo Archeologico Nazionale di Napoli


lunedì 15 settembre 2014

Tutankhamon

Uno dei faraoni più famosi della storia dell'Egitto è Tutankhamon a cui è legata una curiosa maledizione secondo la quale chiunque scoperchi la sua tomba sarà punito. Questa leggenda nasce con la scoperta della tomba nel 1922 da parte dell'archeologo britannico Howard Carter il cui sogno era di scoprire le tombe dei due faraoni della XVIII dinastia, ovvero la tomba di Amenothep/Akhenaton e quella di suo figlio Tutankhamon.
La sua determinazione infatti lo portò a scoprire la tomba del faraone bambino.
In seguito alla morte precoce del finanziatore della spedizione di Carter, il ricco nobile inglese Lord Carnavon, punto da una zanzara infetta, si attribuì la sua morte alla scoperta della tomba del faraone. In realtà, probabilmente, doveva trattarsi di una trovata pubblicitaria per giustificare la lentezza nelle operazioni di svuotamento della tomba; tra l'altro Lord Carnavon aveva già un fisico indebolito da un precedente incidente stradale e ogni piccola infezione gli poteva essere fatale.
Chi è Tutankhamon?
Tutankhamon, il cui nome significa letteralmente "Immagine vivente di Amon", era figlio di Akhenaton e di una giovane regina di nome Kya. Tra le ipotesi iniziali sulla paternità del faraone bambino vi era anche il faraone Amenothep. Attraverso la comparazione del DNA con altre mummie si arrivò poi alla conclusione che il padre di Tutankhamon doveva essere Akhenaton e il nonno Amenothep III.
Poichè il fratellastro Amenofi IV aveva imposto il culto di Aton, dio del Sole, abolendo il culto tradizionale di Amon e aveva spostato la capitale da Tebe (oggi Luxor) ad Akhetaton (oggi Tell el-Amarna), Tutankhamon per farsi accettare dai sacerdoti ritrasferì la capitale a Tebe e ripristinò il culto di Amon attraverso il celebre "Editto della Restaurazione"; egli stesso inoltre cambiò il suo nome da Tutankhaton a Tutankhamon.
La fama di questo giovane faraone durò poco perchè morì poco più che ventenne.
La sua morte divenne quasi un mistero. Inizialmente si pensava fosse morto di una morte violenta, forse un assassinio politico. Negli anni 2000 però risulta, dalle analisi condotte sul corpo del faraone, che una malattia lo abbia portato alla morte, ancora da definire con precisione.
Molto più famoso è il suo sarcofago che ha restituito più di 5000 pezzi tra cui gioielli, oggetti ornamentali ricchi di oro e pietre preziose, nonchè statue e mobili di un valore inestimabile tra questi la famosa maschera funeraria d'oro massiccio conservata nel Museo Egizio del Cairo.

sabato 13 settembre 2014

La stele di Rosetta

Una delle grandi scoperte, che hanno dato una svolta nel mondo archeologico e storico, è quella della stele di Rosetta.
Tutti la conosciamo nei libri di storia perchè legata alla nascita della scrittura ma cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta, quando è stata scoperta e perchè è così importante.
La stele di Rosetta è una lastra di granito su cui è inciso un decreto di Tolomeo V scritto in tre lingue: geroglifico, demotico e greco.
Si tratta quindi di una sorta di traduttore in quanto conoscendo una delle tre lingue risulta facile tradurre le altre due.
Come tutte le grandi scoperte fu casuale. Durante la spedizione di Napoleone Bonaparte nel 1799 in Egitto, che mirava da un lato a far conoscere al mondo questa antica civiltà, dall'altro a frenare l'espansionismo degli inglesi, alcuni operai del forte di Rachid (Rosetta), durante i lavori di fortificazione, rinvennero questa stele in pietra e, nonostante non fossero archeologi di professione, subito si resero conto dell'importanza di questo manufatto.
Il 17 luglio 1799 venne annunciata la scoperta della stele di Rosetta nel seguente dispaccio:
"Nei lavori di fortificazione che il cittadino Dhantpoul, capo di battaglione del genio, ha realizzato al vecchio forte di Rachid, sulla sponda sinistra del Nilo, è stata rinvenuta una bella pietra di granito nero [..]. Uno dei lati della pietra presenta tre iscrizioni distinte, disposte in tre strati paralleli. La prima [..] è incisa in caratteri geroglifici. La seconda è redatta in caratteri che sembrano siriaci. La terza è scritta in greco [..]."
In realtà la seconda scrittura era demotico, una delle scritture di lingua egiziana.
La stele venne consegnata al generale Menou e venne inviata a Parigi dove ne fecero diverse copie, destinate agli studiosi di tutta Europa per poterla studiare. Nel 1801 arrivarono le forze inglesi per attaccare le armate di Napoleone. I generali inglesi conoscevano l'importanza della stele ed erano determinati ad impossessarsene; il generale Menou nascose la stele nella sua casa ad Alessandria inutilmente però, perchè il generale inglese Turner arrivò a casa sua e lo costrinse a consegnarla. Da quel momento in poi la stele di Rosetta occupa un posto d'onore nel British Museum a Londra.
La scoperta della stele ha permesso di decifrare il geroglifico, l'antica scrittura egizia che fino ad allora era rimasta un mistero, in quanto nessuno studioso, nonostante i  diversi tentativi, riuscì ad arrivare alla completa decifrazione.
Jean-Francois Champollion, nato nel 1790 e morto nel 1832, fin da bambino si era proposto di riuscire un giorno a leggere la misteriosa scrittura degli Egizi e nel 1808 ricevette una copia della stele.
Per ben 10 anni tentò la decifrazione e finalmente il 22 settembre del 1822, grazie anche alla sua conoscenza del copto, ovvero la fase finale della lingua egizia, pronunciò la famosa frase "Je tiens l'affaire!": aveva decifrato i geroglifici.
Con questa data si è anche soliti far iniziare l'egittologia, cioè la scienza che studia la civiltà egizia dal punto di vista scientifico.

venerdì 12 settembre 2014

Il Teatro di Pompei

Salve a tutti! Per inaugurare il mio blog ho pensato di parlarvi dell'argomento che è stato oggetto della mia tesi triennale: il Teatro di Pompei.
Sebbene di Pompei si conosca soprattutto l'Anfiteatro, il Teatro risulta essere una struttura più interessante dal punto di vista architettonico, costituendo quasi un unicum all'interno della tipologia architettonica dei teatri.
Prima di illustrarvi la descrizione del Teatro, come farebbe una brava guida turistica archeologica, vorrei introdurvi brevemente la storia dell'edificio teatrale romano.
Innanzitutto: perchè si chiama "teatro"? Da dove nasce questo termine? Sono le prime domande che ci poniamo quando entriamo in uno di questi edifici sia moderni che antichi. Ebbene il termine deriva dal verbo greco θεάομαι che significa "guardare", "essere osservatore", ci rimanda quindi alla effettiva funzione dell'edificio. Il teatro, però, oltre ad essere luogo di rappresentazioni sceniche e ludiche, aveva talvolta la funzione di luogo di riunione, di assemblea, dove si pronunciavano le orazioni.
Una cosa curiosa legata a questi edifici è il fatto che si sviluppano più tardi rispetto all'attività teatrale, infatti inizialmente l'allestimento di rappresentazioni teatrali era vietato da una legge e quindi iniziarono a diffondersi tra il III e il II sec. a.C. delle scene temporanee, costruite in legno e itineranti, fatte solamente di gradini, mentre la scaena era montata temporaneamente; si tratta dei theatra lignea di cui ci parla anche Vitruvio.
Teatro di Pietrabbondante
Non tutti sanno che i veri e propri teatri in pietra nascono in Campania, in epoca sannitica, alla fine del III sec. a.C., tra questi citiamo i teatri di Sarno, Pietrabbondante, oltre quello di Pompei.
Teatro di Sarno









Ritornando al Teatro di Pompei, gli scavi dell'edificio iniziano il 24 luglio del 1764 quando emersero diversi indizi che facevano pensare alla presenza di un teatro; proseguono poi anche nell' '800 e negli anni '50 del Novecento con la figura di Amedeo Maiuri.
L'aspetto attuale del Teatro è quello che ha assunto l'edificio in età augustea.
Il Teatro si compone della cavea, ovvero la gradinata su cui il pubblico si sedeva per osservare gli spettacoli; inizialmente i gradini erano stati realizzati in tufo poi in fase augustea furono rivestiti in marmo. Oggi l'aspetto della cavea è stato completamente stravolto da un restauro moderno completato nel 2010. 

La cavea è suddivisa in tre ordini: ima cavea, media cavea e summa cavea.
L'ima cavea è la parte più bassa, costituita di quattro fila di sedili; era riservata ai decurioni, i membri del Senato locale.
La media cavea è composta di venti fila di sedili, partendo dall'ima cavea e arrivando fino alla crypta, ovvero il corridoio a volta. Alla media cavea si accedeva attraverso i scalaria, cioè delle rampe di scale che a loro volta suddividevano la cavea in cinque cunei (potremmo definirli i "settori" dei teatri moderni).
La summa cavea constava probabilmente di altre quattro fila di sedili (oggi non è visibile) poste su un piano soprastante la crypta, che era questo corridoio a volta che seguiva tutto il perimetro a semicerchio della cavea.
Ai lati della cavea troviamo i tribunalia che possiamo definire delle tribune d'onore riservate ad ospiti d'onore e affacciavano proprio sul palcoscenico.
Dinnanzi alla parte più bassa della cavea c'era l'orchestra che perde la funzione di ospitare il Coro, tipica del teatro greco, per ospitare invece funzionari pubblici e parenti.
Infine vi era la scaena frons, ovvero la scenografia e il palcoscenico, fatta in legno e dotata anche di elementi mobili che creavano degli effetti particolari; vi erano anche fori per il sipario che, a differenza di quelli moderni, si calava dal basso verso l'alto ad inizio spettacolo.
La scenografia consisteva nella riproduzione di facciate di palazzi principeschi.
Un'altra curiosità è che quello di Pompei, come molti teatri romani, era dotato di un sistema di copertura che riparava da sole dal momento che i spettacoli venivano rappresentati anche nelle ore calde; si trattava di una sorta di telone o tenda che andava a coprire tutta la cavea e l'orchestra.
Qual è la particolarità di questo Teatro? Si tratta di un teatro che evolve dal punto di vista architettonico nel corso della sua vita. Nasce tra la fine del III sec. a.C. e l'inizio del II sec. a,C. e si presenta come teatro greco, viene poi adeguato ai teatri romani che nascono successivamente in età repubblicana e poi imperiale, diventando in età augustea un vero e proprio edificio romano.
Buona lettura a tutti.
I. M.